Il blog di Renato Carlo Miradoli

Carneade, la filosofia per i romani e Don Abbondio

 

Se merito vi fu per il santuario di Oropo nell’Attica, saccheggiato da Atene nel 156 a.C., quello fu proprio di essere vittima di un’ingiustizia.

Sì, il lettore ha capito bene: un’ingiustizia!

E questo non è solo un orpello retorico per richiamare una assurdità ad effetto degna di Carneade, ma richiamare il fatto che Oropo ebbe il merito di obbligare Carneade di Cirene, appunto, Dionigi di Babilonia e Cleonte di Faselide in Licia, a recarsi a Roma a parlare dell’aggressione indegna da parte di Atene al santuario, e così far conoscere davvero al Senato romano la filosofia greca.

Poco importa se poi i tre filosofi furono espulsi. Essi furono anche ascoltati.

E che appunto, questo fatto straordinario fu sì, degno di nota, e fu richiamato da Cicerone nel De Republica, ma non solo: Plutarco ce ne dà contezza nella vita di Catone il Censore, per non parlare di Eusebio di Cesarea nella sua Praeparatio evangelica.

Eh, sì, perché a quei praticoni che erano i Romani, il discorso, o meglio i due discorsi antitetici di Carneade uno a favore della giustizia e uno, tenuto il giorno dopo, contro, non piacquero affatto e i tre filosofi furono espulsi e banditi con il divieto di mettere di nuovo piede nell’Urbe.

Carneade e il suo scetticismo estremo, come abbiamo visto, non piacquero neppure a Don Abbondio che si pregiò quasi di non conoscere chi fosse Carneade; a noi resta il monito del codardo ecclesiastico manzoniano, che sentenziò definitivamente quanto al filosofo cirenaico stesso sarebbe piaciuto oltre alla notorietà: e, cioè, probabilmente, l’anonimato totale.

E, proseguendo, se il dubbio fu il criterio per Agostino di dimostrarsi esistente, questo non lo fu proprio per il grande Catone, per il quale, la realtà non può essere che “sì, sì, no, no” (oggi si direbbe, o bianco o nero), anticipando gli scritti neotestamentari.

Ma a noi resta il dubbio sul dubbio: che forse avesse ragione il Censore in questo senso, ma un uomo può solo dirsi certo se dubita, e dubbioso se egli è certo del proprio dubbio: uno non può dire che un dubbio è errato se prima non ha dubitato a fondo.

 

 

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