Il blog di Renato Carlo Miradoli

La banalità del male ne "La delazione" di Roberto Cazzola

 

Se Luigia Zonga avesse lontanamnte sospettato quanto il proprio gesto avrebbe provocato alle malcapitate vittime, avrebbe perseverato nei propri intenti? Questa è la domanda che ci si pone nel momento stesso in cui cominciamo a leggere “La Delazione” di Roberto Cazzola, romanzo di finzione, ma che sembra un reportage giornalistico volutamente lasciato nel limbo di quei testi che sembrano una cosa e in realtà sono un’altra.

 

 

Voglio dire la finzione che diventa realtà, tanto vera o, per dir meglio, autentica è la scrittura dell’autore. Ma vediamo la storia.

In un unico capitolo di 220 pagine senza una singola interruzione importante, Cazzola ci conduce all’interno di una vicenda umana che ha dell’incredibile: siamo nel 1944 a Torino e Luigia, 17 anni, figlia di una donna che ha problemi economici, si accorge che Alfredo Dervilles è innamorato di una ragazza di nome Selma e denuncia la coppia al comando fascista di Torino (e di conseguenza al comando tedesco) spifferando un segreto da poco se non saputo da alcuno, che cioè Selma è di religione e razza ebraica, e che i documenti della ragazza sono falsi, stando i fatti diversamente da come la povera Selma afferma.

La giovane donna in realtà è austriaca, ebrea e vive clandestinamente col fidanzato il quale copre la vera identità di lei. Detto fatto: i due vengono arrestati, Alfredo picchiato, Selma deportata prima a Fossoli e di qui a Bergen Belsen da dove tornerà solo a guerra conclusa.

Alfredo nel frattempo persuaso dal solito amico che “sa tutto” ad accettare il fatto che Selma deportata in Germania non tornerà più, accetta la corte di Alberta una ragazza di lui più giovane e affamata, la quale, però, sembra in grado di fargli dimenticare l’amore della prigioniera.

Finita la guerra Selma, sopravvissuta al campo di concentramento, spelacchiata per le tonsure violente dei Kapo e macilenta, torna a Torino di nascosto e, ombra di se stessa, vede uscire da un portone Alfredo e Alberta, bella coppia e apparentemente felice. Non osando avvicinare i due, brutta e scheletrica com’è, fugge in Austria dove morirà con i propri ricordi.

Ma dei ricordi di Alfredo e del dramma di dover vivere senza la sua Selma si occupa Cazzola: in una prosa tutt’altro che lineare, ma coinvolgente proprio perché piena di involuzioni e continui ritorni sul già detto (nonché pullulante di voli pindarici tanto da costringerci a essere vittime entusiaste della narrazione a balzi avanti e indietro rispetto agli eventi), scopriamo la tesi di questo grande scrittore e che può in qualche modo servire come contributo profondo ai temi di riflessione che questo blog ospita.

Mi riferisco alla banalità del male.

Nella controcopertina del volume edito da Casagrande, viene citato un passo del libro appunto riguardante questa banalità ingenuità inconsapevole delle conseguenze drammatiche del proprio agire. Luigia non sa: non sospetta neppure che il gioco perverso che ella sta facendo con le vite degli altri causerà tali danni al prossimo suo che porteranno solo il male e la morte. Questa è la natura umana: essa molto spesso è malvagia stupidamente e, appunto, non lo sa: causa dolore e lacrime, ma ne ride sottovalutando gli esiti o non curandosi di nulla.

Ma l’uomo è così? Sì, lo è: se Giuda tradisce il “Figlio dell’Uomo” sapendolo e in fondo invitato a ciò dallo stesso Gesù durante l’ultima cena con le parole: “Quello che devi fare, fallo presto,” la folla che incita Pilato a crocifiggere il proprio salvatore no. Se Gesù lava i piedi ai discepoli scandalizzati di fronte all’umiltà del Maestro presagendo che qualcosa di terribile sta per accadergli, la folla ululante e bestiale a Pilato chiede di liberare Barabba e non il dolce buon pastore che li ha pur beneficati con i miracoli dei propri gesti e delle proprie parole di speranza.

Se non fosse che il dramma travolge Gesù vittima innocente per eccellenza, verrebbe anche a noi di passar sopra a questo fatto come a uno dei meno significativi della storia e quale pettegolezzo ignorarlo perché uno dei tanti della impietosa storia dell’umanità.

Voglio dire che può anche essere letto in questo modo: immaginiamo la scena: la folla, Gesù, Pilato e Barabba: il Procuratore di Giudea grida: “Chi volete libero?”, e la folla fra sé e sé sembra poter pensare come un unico formicaio: “Ma sì dai, che ti frega?, Grida Barabba, dai!”

Non è ancora da escludere che molti di quella folla bestiale all’interno del Litostroto possano (ma questa è solo una congettura di chi scrive ed è solo volta ad aggiungere pepe all’argomentazione) aver confuso i nomi di Barabba e del Nazareno che era per entrambi Gesù. Inoltre Bar-Abbas in ebraico significa figlio di suo padre (e chi non lo è in fondo?) e, se consideriamo tutti questi elementi al fine di comprendere meglio la confusione occorsa in quel momento tanto concitato come il processo-spettacolo di Gesù di Nazareth, inevitabilmente ci viene da pensare a quanto facile fosse, per appunto non dire banale, confondere un uomo per un altro. Perciò: “Chi volete libero Gesù Bar-Abbas o Gesù bar-Jussef?”; e la folla grida il famoso nome passato alla storia solo per questo episodio come se volessero dire: “Ma sì dai… perché no: Barabba, Barabba…”

Ripenso a quanto male facciano molte delle nostre parole nella vita di tutti i giorni di cui noi non ci accorgiamo. Da elencare le crudeli affermazioni sulla fedeltà a un datore di lavoro: “Per te lavorerei gratis!”. Oppure le stupide e non ponderate parole del titolare: “Questa nostra azienda è un grande famiglia!”.

Tralascio le vuote parole (ma terribili, ben inteso!) degli amanti o di coloro che vogliono o tentano di sedurre qualcuno: i “Ti amo” mal detti in un contesto nel quale si sa già non si potrà continuare una storia di amore; per non dire: “Che persona meravigliosa che ho incontrato… vorrei tu fossi mio/mia!”. L’interlocutore crede, si illude e soffre, ma non sa di essere ignara vittima della banale affermazione di qualcuno che dice cose pensate come solo leggere.

Ecco il male che crocifigge un innocente, il male che banale nella sua formulazione del: “In fondo che cosa ho detto?” diventa dolore, illusione o molto spesso disperazione.

E come per Luigia il dire il nome della “lurida” ebrea che consegnava alla milizia fascista era solo un’emissione di suono come             qualsiasi altro, rovinando peraltro la vita di due persone e il loro amore così profondo e intimo, così Gesù di Nazareth e non Barabba finisce sulla croce.

Alfredo morirà vecchio con la disperazione nel cuore sempre innamorato della sua Selma e mai di Alberta non sapendo per altro che la sua dolce fidanzata è viva, che lo ha visto e si rifiuta di cercarlo credendo che egli sia con la nuova compagna. I due moriranno soli, ma non divisi da un crudele don Rodrigo, ma dalla banale denuncia di una ragazzina che neppur sa dove e cosa sia Bergen Belsen.

Ecco la banalità del male, ecco la crudeltà degli uomini.

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