Il blog di Renato Carlo Miradoli

Volere scomparire è desiderare di non essere mai vissuti?

Pur nella sua prosa minimalista (al punto che a volte si fatica, e non poco, a seguire l’intreccio) Friederich Ani, specialista in gialli su persone scomparse, ci appassiona a un tema che la nostra mente (sfido chiunque a dire il contrario) ha ospitato nei momenti della malinconia: fuggire in un altro luogo, nascondersi da amici e conoscenti quasi volessimo dire a noi stessi di non essere mai nati. Anzi: mai vissuti.

Noi tutti, novelli Mattia Pascal, vogliamo fuggire e con questo gesto sfuggire a tutti i problemi, le angosce e, via elencando, il nostro vissuto più intimo. Fuggendo sparirebbero, inutile dirlo, tutte le pene. Resta un punto non qualificabile: gli unici, da cui fuggire risulta impossibile, siamo proprio noi stessi. Sembra volerci dire questo Raimund Zacherln protagonista del prezioso volume edito da Emons: I gialli Tedeschi.

L’autore, Friederich Ani, ci racconta del dramma dell’ex-ispettore di polizia Süden, il quale giunge a Monaco per cercare il padre scomparso e si trova a dover investigare sulla scomparsa di un oste, appunto Zacherln, assente ormai da due anni.

Dopo varie peripezie, egli giunge sull’isola di Sylt e qui continua le proprie indagini che lo hanno condotto alla conclusione che il pover’uomo si sia rifugiato in questo luogo dopo la scomparsa della propria giovane amante in un incidente aereo in Thailandia, proprio per ricominciare un’altra vita sotto falso nome.

Ma dicevo della fuga geografica e dell’impossibile fuga dal proprio sé, ed è qui che vorrei soffermarmi per affrontare un aspetto che la religione si propone di analizzare, approfondire nonché persino risolvere.

Non di rado ci è capitato (almeno a noi che pensiamo e ci chiediamo cosa sia la verità delle cose, ben inteso!) nei momenti di sconforto o di dubbio, oppure di angoscia profonda, di sentirci apostrofare, e per di più con una certa arroganza: “Ma cosa c’è? Che cos’hai? Cosa ti mancherà poi?”; ed è inutile citare il rimprovero più spesso ricorrente: “Hai tutto: salute, benessere, una vita affettiva felice! Ma cosa vuoi ancora?”

In passato (ormai non lo faccio più: mi sono stancato!), ho cercato con pazienza di spiegare il mio stato anche articolando pensieri profondi e degni (mi si perdoni l’immodestia) di Jean Paul Sarte o del più casalingo Moravia. Ma è stato tutto inutile: la gente scuoteva la testa se andava bene e, nel peggiore dei casi, arraffazzonava risposte e fervorini sulla povertà nel mondo e sulle disgrazie o malattie di molti. Ma tutti sembrano sempre se non stupiti, almeno schifati del fatto che una persona che è agiata socialmente, culturalmente o economicamente sia angosciata. “Ma tu non ti rendi conto di quanta sofferenza ‘vera’ vi sia in giro,” è il monito saccente dell’interlocutore medio che rintuzza sartrianamente l’idea che l’inferno siano proprio gli altri!

Ecco l’idea della fuga allora: fuggire e ricominciare là dove apparentemente tutto ripartirebbe ex novo, magari con l’illusione di dare alla vita una seconda possibilità. Dico apparentemente in quanto proprio i quesiti filosofici da noi temuti ci accompagneranno sempre.

A ben vedere la domanda dalla quale il mediocre fugge con tanta leggerezza, accontentandosi così di farsi consolare dal fatto che c’è sempre qualcuno che starebbe peggio, è proprio quella che angoscia chi scrive qui, ma a ben vedere tutti gli uomini fin dal noto e primordiale “dialogo del pescatore con la sua anima” di origine egizia; e la domanda è questa: “Ma che senso ha?”

Che senso ha, cioè, non soltanto faticare una vita per poi morire, lavorare, combattere le ingiustizie, realizzare la felicità propria e degli altri. In una battuta: che senso ha vivere? Non sarebbe forse meglio, per dirla con la sapienza dei greci antichi, non essere mai nati? Niente domande, niente risposte: e tutto non sarebbe neppure cominciato senza neanche sapere di averlo perso, appunto perché mai nati!

I grandi pensatori cristiani (o, comunque, coloro che nella religione ci hanno visto bene e non banalità sulla povertà o sciocchezze di questa natura!) si sono posti lo stesso problema, non da ultimo don Luigi Giussani nel suo: “Il senso religioso”; i quali tutti, però, sembrano dimenticare che se la vita è un dono di Dio, essa stessa come tutti i doni, possiede la caratteristica di essere vuoi gradita, vuoi sgradita. E la vita in quanto dono potrebbe (a costo di tutti i noiosi commenti colpevolizzanti sul fatto che essa è dono di Dio) apparire dono sgradito, non voluto né accettato. A Dio potremmo anche rispondere così: “Ma a Te chi Te l’ha chiesto di mettermi al mondo, darmi la vita? Ora che non mi piace e che sembra una fatica completamente inutile, mi colpevolizzi pure per il fatto di rifiutarla?” Il bel regalo sarebbe un dispetto: che è come dire di regalare, di tutto cuore, una caramella alla menta a chi non ama la menta e, magari, a essa è pure allergico!

E il solo fatto di esserci, di essere stati creati non può essere considerato un bene di per sé. Il cristianesimo, infatti, è obbligato a inventarsi il peccato originale come l’atto responsabile della mancanza di gratitudine dell’uomo e della volontà di lui di autodeterminazione. Noi, più banalmente, vogliamo leggere questo crimine ancestrale come semplice e pura risposta, appunto, all’offerta di Dio: “Grazie, ma io non Te l’ho chiesto: ne facevo volentieri a meno!”

Forse il nostro oste rivolgendosi alla religione e a un ministro del culto cristiano (rinunciando, ben inteso, a ulteriori e più profonde domande) avrebbe evitato uno scomodo viaggio sulla fredda isola di Sylt e lì un altrettanto spiacevole soggiorno.

Questa è l’amara conclusione che tiriamo qui in questo blog, la quale (ne sono certo) supera le intenzioni di Ani, o forse no, forse semplicemente Ani voleva solo dirci che quando qualcuno scompare, a scomparire è soprattutto la ragione della sua scomparsa.

Buona lettura.

 

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